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di LINO PELLEGRINI

Il carteggio tra il "Vate" e l'amico veneziano Giuseppe Marzemin. Gli annunci del volo su Vienna e della spedizione di Fiume. Poi il testo che doveva leggere il 24 maggio 1919. Ma il capo il governo lo impedì.

Il discorso che Orlando vietò a D'Annunzio

Era intitolato «L'Italia e la vittoria col bavaglio», un'invettiva contro gli alleati

La rabbia e la delusione per le trattative sulla pace con l'Italia messa in disparte dalle grandi potenze

La difesa dall'accusa lanciatagli nel dopoguerra di mirare a un colpo si Stato:«Ardisco non ordisco»

A Mestre, una via è dedicata a Giuseppe Marzemin, di famiglia vicentina, autore dì numerosi volumi su Venezia, irredentista, innamorato della Dalmazia. Giuseppe Marzemin, mancato nel 1946, a suo tempo risiedeva a Venezia ed era profondamente amico di Gabriele d’Annunzio!, il quale, a sua volta, come tutti sanno, a Venezia ci visse per parecchio tempo, verso la fine della Grande Guerra. E siamo al dunque.

Nonostante la sua attività di studioso, Giuseppe Marzemin operava, ad alto livello, presso l’intendenza di Finanza di Venezia, per puro caso, divenne amministratore di D’Annunzio nel settore degli immobili. A Venezia, D’Annunzio abitava nella Casa (o Casetta) Rossa, divenuta a suo tempo celebre. E la Casa Rossa era appartenuta al nobiluomo austriaco Fritz Hohenlohe, il quale, con lo scoppio della Grande Guerra, aveva dovuto abbandonare l’Italia. Andò a finire che D’Annunzio versava l’importo dell’affitto della Casa Rossa attraverso Giuseppe Marzemin. Fra D’Annunzio e Marzemin nacque così un rapporto inizialmente burocratico, che rapidamente si trasformò in amicizia.

D'Annunzio alla vigilia dell'impresa su
Fiume,sventola la bandiera del Timavo,
 listata a  lutto, dalla loggia del
Campidoglio a Roma

Amicizia autentica, profonda. Me lo dimostra il figlio di Giuseppe, Luigi, medico, residente a Feltre. Me lo dimostra, ponendomi fra le mani un pacco di venti lettere (carta pesante, color avorio: talora, ceralacca), scritte a suo tempo da Gabriele D’Annunzio. Politica? Guerra? Confidenze? Amori? No, niente di tutto ciò, in apparenza navighiamo quasi sempre fra pigione scadenze, riparazioni, appuntamenti. Ne emerge quindi un D’Annunzio che nulla ha a che fare con il Vate. «Le accludo  Lire 300». «... le consegnerà 15.000 lire per il pagamento dei conti in rosso e delle vecchie note». «L’imposizione del fisco: 3700 lire su una pigione di 6000 è enorme. E bisognava protestare. Il cittadino che protesta è, più che mai, d’attualità». Perbacco, quell’ “attualità” sembra identificarsi con uno dei problemi dei nostri giorni, altro che “Figlia di Jorio” e “Leda senza cigno”

Usavo poco fa l’espressione “in apparenza”. Perché, chiudere una lettera con le parole «Le stringo la mano con calda gratitudine» non equivale a formalità. Né «Un abbraccio dal suo Gabriele d’Annunzio». Né «Comincio a leggere il suo libro così pieno di elegante cultura». E tanto meno quando una lettera dal tema amministrativo contiene una simile frase: «Tremiamo per Spalato: i Dalmati guardano a Lei e vogliono rinnovata anche colà la Santa intrada degli eredi della Serenissima. La Dalmazia senza Spalato

sarebbe un’Istria senza Pola». Già, col suo pessimismo d’Annunzio anticipava gli eventi: e, contemporaneamente, dimostrava a Marzemin quella che era ormai una forma di fratellanza. Qui, dunque, chiarezza.

Invece, in una lettera del 5 agosto 1918: «Ora sono al campo di San Pelagio, nell’attesa di compiere una grande incursione». San Pelagio, poco lontana da Padova, era il campo dal quale decollavano molti dei nostri aerei per missioni di guerra: e, se d’Annunzio parlava di una “grande incursione”, doveva proprio trattarsi di un’azione fondamentale... Lo fu, infatti. Si trattava nientemeno che dell’incursione - innocua! - su Vienna, passata alla storia dell’aeronautica non soltanto nostra. Intanto, il dottor Luigi Marzemin estrae dalla sua cartella un blocco di foglietti tricolori, sono quanto resta dei manifesti- scritti sia in italiano sia in tedesco, lanciati da d’Annunzio su Vienna; toccando quei manifesti mi sembra di balzare indietro di ottanta anni, proprio così, come se il 1999 fosse ancora il 1918, come se d’Annunzio ancora vivesse, ancora volasse...

Gabriele d'Annunzio durante la grande guerra.

Né basta. Dalla cartella, Luigi Marzemin estrae anche due fotografie, di grande formato. Una delle due reca, dietro, le seguenti parole:‘Palazzo del Parlamento. Cielo di Vienna: 9 agosto 1918 (e a mano) Gabriele d’Annunzio”. L’altra: “Tra Santo Stefano e il Graben. Cielo di Vienna: 9 agosto, (e a mano) Gabriele d’Annunzio”. E, in entrambe, il timbro: “Sezione Fotografica Comando Supremo”. Dunque, si tratta, di foto scattate da gli aerei nostri durante l’incursione. Lo dimostra prodigiosamente la foto numero due, nella quale, soggetti architettonici a parte, spicca la moltitudine dei volantini ancora volanti, appena lanciati su Vienna dai nostri pi loti, nulla meglio di quell’immagine potrebbe riassumere il successo dell’incursione dannunziana. E, altro che amicizia, se d’Annunzio inviava a Giuseppe Marzemin fotografie del genere!

L’anno successivo, esattamente, il 9 settembre 1919 , d’Annunzio scriveva a Giuseppe Marzemin: «... ho dovuto cominciare un enorme lavoro. Come debbo assentarmi, desidero di vederla domani. Può venire a colazione a mezzogiorno e mezzo?». Caspita lo credo aveva dovuto affrontare un enorme lavoro: l’11 settembre d’Annunzio partiva infatti alla volta di Ronchi (poi, “Ronchi dei Legionari”) e il giorno dopo entrava a Fiume. Ma il fatto che le missive non alludano mai in modo diretto a vicende storiche, le rende di particolare interesse perché ci presentano d’Annunzio nella semplice chiave della sua natura umana, la quale natura era ben dissimile dal concetto che del poeta si andavano facendo gli italiani; nelle sue lettere d’Annunzio ci appare un semplice cittadino, come tutti noi.

Esiste una lettera non datata (che un’acuta studiosa dell’epistolario dannunziano, Michela Rusi, collocherebbe fra il giugno e l’estate del 1919), caratterizzata dal motto “Ardisco non ordisco”. Qui non conta le lettere, conta il motto, cui s’accompagna il disegno di una mano che distrugge una ragnatela. Con essi, d’Annunzio smentiva categoricamente l’accusa rivoltagli da un’agenzia giornalistica secondo la quale egli avrebbe mirato a un colpo di Stato. L’accusa probabilmente derivava dal testo di un discorso che d’Annunzio avrebbe dovuto tenere a Roma il 24 maggio 1919 - cioè, nel giorno del quarto anniversario della nostra entrata nella Grande Guerra - ma che il capo del governo, Orlando, aveva vietato. (Orlando, dunque, il testo lo aveva conosciuto in anticipo). Straordinario: il testo, stampato, del discorso, che il dottor Luigi Marzemin mi porge è preceduto dalla seguente dedica manoscritta: «A Giuseppe Marzemin perché mi serbi la sua fede, nella nuova lotta. Gabriele d’Annunzio Maggio 1919”.

Sopra cielo di Vienna il 9 agosto 1918: i puntini che si vedono sono i manifestini
 antiaustriaci lanciati dal poeta durante il volo sulla capitale nemica

Nel discorso, intitolato “L’Italia alla colonna e la vittoria col bavaglio”, d’Annunzio vuole inserire tutti gli elementi a sostegno della sua tesi. Quale tesi? Il fatto che, a suo avviso, gli alleati di ieri stavano prendendo l’Italia a calci nel sedere, durante le trattative per il documento finale di pace. Per cui, dopo la rievocazione di Roma antica, ecco d’Annunzio citare le nostre battaglie, i nostri 24.000 Caduti sul solo fronte del Grappa, il nostro richiamo alle armi di ben 5 milioni di uomini i nostri innumerevoli sacrifici Gli alleati ci aiutarono con 3 divisioni britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e 1 reggimento statunitense? Già, ma noi avevamo mandato un corpo d’armata in Francia, ben 5 divisioni in Albania, 2 in Macedonia (riflettiamoci con queste divisioni anche in chiave di attualità) e, inoltre, truppe in Siria, in Siberia, in Murmania, e avevamo combattuto contro turchi e bulgari. Ciò, senza contare che, prima della Grande Guerra quei medesimi futuri alleati avevano aiutato a battersi contro di noi gli abissini e, in Libia, i turchi. In più, la valanga di materie prime che, col famigerato progetto di pace, gli alleati si erano assicurati. Il discorso si chiude, fra l’altro, con queste frasi: «Ecco che i ventiquattromila uccisi del Grappa sorgono, e sollevano il monte e trasportano il monte eterno nel mezzo del la città eterna».

Certo il discorso non poteva non riuscire sgraditissimo al nostri governanti del l’epoca. E ancora, il 23 dicembre 1922, Gabriele, d’Annunzio scrive a Marzemin: «Sono in mezzo a tristezze e a inquietudini senza numero. Si salverà l’Italia»

Il mio colloquio col dottor Luigi, figlio di Giuseppe, deve necessariamente ridursi al minimo, proprio perché i temi sono massimi. Luigi Marzemin riesce comunque a sbalordirmi, sottolineando un passo del discorso di cui sopra. «Come si chiamava il presidente del Tribunale austriaco, che, a Trento, fece impicca re Cesare Battisti? Si chiamava Schumacher». D’Annunzio lo definisce “il gentil boia”. Noi carrucola e corda nemmeno le rammentiamo. Noi, badiamo soltanto a pneumatici e ruote.