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Le  origini  romane  di  Venezia

Dott. GIUSEPPE MARZEMIN

dell’Ateneo Veneto di Venezia

Sommario: Si riprende in esame la scoperta fatta nel 1822 nell’Isola delle Vergini (area dell’Arsenale di Venezia) dall’ing. Casoni di una antichissima fondazione già descritta in atti dell’Istituto Veneto di SS. LL. AA. ed in base a nuovi elementi storici e lagunari si colloca non nel secolo IX come opinò lo scopritore ma nell’anno 44 a. C. al tempo cioè della guerra civile di Modena. Una concordanza di notizie desunta da Appiano, Dione, Cicerone, Macrobio, Floro e dalla Tabula Peutingeriana avvalora quelle inserite in una cronaca latina del sec. XII finora medita e dall’A, or ora pubblicata, le quali notizie giustificano la suddetta attribuzione che corrisponderebbe alla fondazione di un porto romano patavino (Venezia) nell’agro municipale di Paitavium. Si prospetta anche l’ipotesi che in quella cronaca si trovino inseriti dei frammenti dei perduti libri di Tifo Livio. Indi si sono ricercate nel Codice Teodosiano e nel diritto municipale romano nonché nella epigrafia, disposizioni che avvalorano il fondamento di diritto pubblico romano delle istituzioni dei Tres-Viri (non consoli) fondatori del detto porto, dei Tribuni (sec. V.), del Dux (a. 697) e nel diritto posi giustinianeo il fondamento giuridico delle corporazioni veneziane (Scholae o Arti). Infine da elementi storici locali e dai monumenti superstiti si rivendica, contro la teoria bizantineggiante, l’originalità artistica di Venezia.

Il monumento archeologico “in situ”’. della fondazione di Venezia (44 a. C.).

Nel 1822 l’ingegnere veneziano Giovanni Casoni nel demolire un tratto di muraglia di cinta dell’Arsenale, sul canale di S. Pietro di Castello, mise allo scoperto fino dai fondamenti un tratto di 36 metri di una vetusta massiccia opera muraria, che giaceva colà sprofondata ed anzi sopra una parte di essa, nel secolo X, era stata innalzata una piccola chiesa.

L’opera da un lato si prolungava verso il mezzo del canale suddetto, dall’altro nell’odierna area dell’Arsenale. Dopo 34 anni di meditazioni il Casoni pubblicò negli Atti dell’istituto Veneto di SS. LL. e AA. una Memoria illustrativa della sua scoperta che descrisse anche con disegni e misure e finì coll’attribuirla a manufatto idraulico o militare veneziano del IX secolo. Traendo profitto da altri miei precedenti studi [1], non tardai molto a scartare la presunta destinazione idraulica o comunque “ veneziana” dell’opera, in quel secolo, ed a ritenerla invece il resto di una poderosa costruzione pubblica dell’età romana. Ma dire questo sarebbe stato ben poco se nel 1916 il Prof. Vittorio Lazzaroni non avesse attirato l’attenzione mia sopra un’antica cronaca latina inedita patavina, pubblicandone alcuni frammenti della parte più antica. Portato il mio esame su questo documento cronistico; io ne attribuii la compilazione alla fine del secolo XII e con immensa fatica mi accinsi a individuare talune contaminazioni ed a depurarlo da patenti anacronismi, che l’ignoto compilatore ed altri, vi avevano abilmente e a scopo politico introdotto e che, a buon diritto, avevano fatto fino ad oggi ripudiare la contenenza storica della cronaca stessa. Il risultato delle mie controllate ricerche si è ora concretato.

In talune di quelle notizie inserite nella cronaca non ritenni arbitrario ravvisare (e lo giudicheranno anche romanisti e filologi) dei frammenti di perduti libri delle storie di Tito Livio (e precisamente dei 117, 118, 119, 120), che giusta le epitomi pervenuteci trattavano della guerra civile di Modena scoppiata subito dopo la morte di Cesare. Le notizie degli autori su questi avvenimenti: Appiano, Dione Cassio, Cicerone, Macrobio e Velleio Patercolo, in concordanza colle notizie offerte dagli accennati frammenti, illuminano la ragione d’essere del manufatto scoperto nel quale ravvisai un resto del Porto- arsenale e nuova città — rifugio insieme, colà costruito dai Patavini nel loro agro marittimo municipale, per suggerimento di Decimo Bruto, dal 44 al 43 a. C. allo scopo di armarsi nell’imminente guerra civile e di costituire in quel luogo un rifugio e un castello anche a disposizione di Sesto Pompeo che era padrone del mare. I ravvisati frammenti storici interpolati nella detta cronica dell’Anonimo recano la menzione del decretum dei [decurioni] patavini e perfino di un editto [proprio del proconsole D. Bruto] per annunziare [ Veneti e a Transpadani] la decisione della costruzione del Castello e per invitarli a concorrervi, onde ne appare il carattere e la funzione politico-romana della iniziativa in quel momento. L’opera di cui si tratta esiste ancora sotterra e si prolunga in ben identificabile sito nell’area scoperta dell’Arsenale. Si rimetta in luce e si torni a studiarla. Se risulterà opera del secolo IX, sarà un problema di più nell’archeologia veneziana: ma se risulterà opera del I secolo av. C. io avrò avuto ragione di avvalorare quella che fu anche la prima intuizione dello scopritore con la sua attribuzione a età romana [2], Per una città che sì chiama Venezia si ha il diritto e il dovere, potendo, di accettare o di respingere la data archeologica oltre che storica della sua nascita.

E torno alla mia illustrazione.

Questo porto romano trova la sua corrispondenza nella stazione della Tabula Peutingeriana ad Portum sulla via navigabile interna Ravenna- Altino e alla distanza di miglia 10 da quest’ultima città, giacché nell’aggiunta di miglia VI che appare nella copia superstite di questo documento cartografico romano, devesi ravvisare una posteriore contaminazione già segnalata dal DESJARDINS e da me controllata a Vienna.

Il Dandolo e il De Moncis parlano di resti di mura (moenia) di castello e di città e cioè di questo Porto- città esistente colà, alla metà del secolo V, quando cioè i fuggiaschi patavini da Attila vi si rifugiarono, mentre poi tutta la località, il canale, un piccolo rivo, il sestiere, la chiesa, e la diocesi stessa di Venezia presero il nome di Castello a testimonianza e memoria del castello romano del I sec. a.C. In un secondo tempo e cioè agli inizi del secolo V, nella stessa zona rivoaltina, ma più ad occidente del Porto, sorse il nuovo centro politico ed edilizio, in un terzo tempo per effetto delle distruzioni longobarde e specie di Padova nel 601 s’accrebbe anche di altri Italiani e in un quarto tempo, nell’810, si originò la moderna città. Ma la posa della prima pietra in quel luogo dove poi si svilupp6 Venezia, fu collocata nella prima vera dell’anno 44 a.C. sì che la città può numerare oggi gli anni della sua età, ab urbe condita, in 1981 e in 27 secoli la esistenza dei Veneti liberi in questi luoghi litoranei.

Altri resti di romanità a Venezia.

Il MOMMSEN attribuì erroneamente il territorio rivoaltino al municipio romano di Altino anziché a quello di Patavium. Il problema che si impone nello studio e nell’attribuzione di tutto il materiale epigrafico sepolcrale ed onorario esistente a Venezia è quello della provenienza. Fu un errore l’averlo voluto considerare tutto d’importazione. Bisogna infatti soffermarsi su quello che si abbia notizia sia stato rinvenuto nella profondità del sottosuolo e particolarmente su quello che reca cognomi e nomi gentilizi, taluni anche con la menzione della tribù Fabia, (a cui era ascritta Patavium). Quando si trovano nelle lapidi rinvenute a Padova in situ, gli stessi cognomi e nomi gentilizi dei titoli veneziani scaturiti dal sottosuolo, e non sono pochi, si può con sufficiente tranquillità affermare che le medesime famiglie abitarono contemporanea mente e susseguentemente nella capitale Patavium e nel loro agro marittimo municipale rivoaltino. Non poco del materiale archeologico romano esistente a Venezia, ripete però la sua provenienza da Matamauco, l’antico porto marittimo di Patavium e già capitale del ducato, che, nell’810, vantava un millennio di splendida esistenza.

Vanno attribuite al secolo V due cloache romane, quella di S. Lio descritta da Giacomo Boni, senza però da parte sua, alcuna ipotesi sull’epoca della costruzione, ed erroneamente da lui ritenuta il servizio di acque correnti marine, anziché per la vera funzione propria delle cloache romane, alla stessa guisa di quelle descritte dalla Cronaca Altinate a Grado e colà costruite nella medesima epoca. Quando i veneziani tra i secoli IX e X impresero a costruire la moderna città, a funzione di scolo scavarono i loro subterraneos conductos detti jaglationes, onde le antiche cloache rimasero per effetto dell’abbassamento del suolo, sprofondate e inutilizzabili.

Da elementi e notizie apparse in occasione della ricostruzione del campanile di S. Marco, risulta sufficientemente dimostrato, come fu già da altri intuito, che la prima torre sia stata un’opera di difesa militare del nuovo centro rivoaltino e non più tarda, io ritengo, del secolo quinto.

Nel cortiletto pensile, tra il palazzo Ducale e la Basilica è tuttodì visibile un poderoso arcone con massi collegati a incastri a denti di sega della medesima tecnica di quelli della tomba di Teoderico a Ravenna, di Sabrata (Libia), del palazzo di Diocleziano a Spalato, e del Colosseo. Questo arcone superstite, evidentemente parte di massiccia costruzione, non è possibile collocare in un’età posteriore al secolo VI e siccome nessuna notizia storica avvalora una data anteriore, non sembra potersi negar credito alle notizie della Cronica Altinate (depurata da evidenti anacronismi) nella quale si legge che Narsete e Longino provvidero a spese dell’impero alla edificazione delle chiese di S. Teodoro e dei SS. Mena e Geminiano (storicamente e archeologicamente dimostrabile) e a quelle civili d’un palatinum, di una domus e di una curia a favore dei Marittimi, ben meritevoli di essere in tal modo premiati dal l’Imperatore Giustiniano sia per la arditissima marcia sui litorali dell’esercito liberatore da essi soli resa attuabile e che portò con la presa di Ravenna al crollo dei Goti e sia per gli immensi sacrifici da essi sostenuti per la difesa dell’Impero contro quei barbari.

Molto altro materiale archeologico romano in situ cela il sottosuolo veneziano, come quello delle sue lagune e di quelle di Grado. L’archeologia romana propria di Venezia fu ritenuta sinora inesistente, nel presupposto che nell’età romana qui non fossero che sterili, inabitate e instabili isolette. É tempo di fugare questo errore inveterato. Come quella meravigliosa creazione politica e spirituale che fu Venezia non scaturì dalle tenebre dell’alto Medio Evo, ma scese dalla luce delle idee del più fulgido periodo romano, così anche le sue costruzioni apparvero gradualmente in virtù di una mirabile evoluzione da quelle preesistenti, anche in situ, del medesimo tempo. Gli anelli di congiunzione dei due periodi si saldano battendo il terreno della sua storia topografica e politica.

I “Tres Viri” fondatori del Castello.

Nella cronaca latina dell’Anonimo patavino del XII secolo si legge che i Patavini nel 421 mandarono successivamente tre consoli con incarico biennale di fondare e poi di governare Venezia. La verità storica è invece che nel 44 a.C. il senato patavino decretò la fondazione del Porto nella detta località e all’impresa prepose bensì tre magistrati i quali però in forza del divieto della Lex Julia Municipalis non potevano portare quel titolo. L’attribuzione di consoli fatta dalla cronaca è dovuta ad una ben complicata contaminazione originata dal fatto che il titolo di consoli spettò invece ad altri magistrati patavini del VI sec., e poi ad altri del XII, omonimi questi ultimi dei fondatori del Porto (Venezia). I Patavini del 44 a.C. meglio che della carica di legati o adlegatei, così nominati nella romana iscrizione del ponte di S. Lorenzo di Padova, quali costruttori dell’opera, potevano di pien diritto disporre del titolo di Tres Viri che in altri municipi furono detti anche aediles o praefecti iure dicundo, dello stesso carattere dei Tres Viri che erano mandati da Roma a dedurre colonie. Tres Viri, e non consoli, dovettero essere i primi magistrati preposti alla fondazione e al governo per il primo biennio del Porto- città con gli storici cognomi che si leggono nei frammenti storici incastonati nella cronaca e che sono: Falerius, Candidius e Daulus; i Tres Viri del biennio successivo furono Gavius o Gavillius, Lucius o Livius e Fuscus, gli ultimi tre furono: Aurelius, Clodius e Maurus i quali però non compirono il biennio perché nel 715 sopravvenuta la pace del Miseno, il Porto Rivoaltino cessò la sua funzione di base militare e di rifugio e rimase come Arsenale e centro commerciale, e quale statio della via acquea Ravenna-Altino della Tabula Peutingeriana. L’esame da me compiuto di tutta l’epigrafia romana, finora nota, di Padova e di Venezia, l’esame da me compiuto delle più autorevoli cronache locali e di oltre 2000 dei più antichi documenti, avvalorano la storicità dei nove personaggi, i cognomi dei quali furono portati da altrettante famiglie esistenti a Patavium e poi talune propagatesi a Venezia e a Padova fino al Medio Evo e alcune anche fino ai tempi moderni.

I Tribuni e il Dux

I patrizi senatoriali e decurionali e i plebei piccoli possidenti — maiores e minores — di Patavium, stabilitisi all’alba del sec. V a Rivo Alto sentirono il bisogno di preporsi una magistratura che non poteva essere che una di quelle proprie di un agro municipale e adottarono la carica dei tribuni analoga a quella dei defensores civitatum. Una non disprezzabile notizia storica raccolta da Nicolò Zeno attribuisce ad un Daulo del quinto secolo la paternità di talune leggi. Si può ravvisare il compito di questo personaggio nella applicazione locale dell’istituto del tribunato in relazione con le costituzioni imperatorie dopo che furono note nel codice Teodosiano pubblicato nel 438, onde risultava che l’ufficio con l’effettivo esercizio di funzioni giurisdicenti faceva salvo il cursus honorum e il diritto alla carica senatoriale dalla quale i maiores patavini non volevano essere estromessi, dopo l’abbandono di Padova. Una posteriore riforma di questo istituto municipale fu compiuta con un’altra legge da un Egidio da Fontana alla fine del sec. VI quando si rese necessario estenderne i benefici politici ad altri Veneti e Italiani provenienti dai municipii invasi dai Langobardi Il diritto pubblico romano riconosceva ai municipali la facoltà di emanare simili leges nell’ambito territoriale delle loro autonomie, giacché occorre appena avvertire che i Patavini poi Veneti Marittimi, sempre sudditi imperiali, si avvalsero, anche perché vi collaborarono nel Senato di Roma, della legislazione codificata da Teodosio e poi da Giustiniano indi di quella costantinopolitana applicata con l’acquitas e integrata, per le nuove forme del viver civile, dalle consuetudines proprie.

La costituzione tribunizia dovette avere un fondamento giuridico ben saldo, se poté estendersi negli altri agri marittimi e sopravvivere alla nomina del dux per scomparire soltanto alla fine del sec. XII.

Tutto ciò non potrebbe essere detto se tali Tribuni fossero stati una carica militare, perché nei secoli dal V al VIII nessuna milizia né imperiale, né gotica, stanziò nei Luoghi marittimi, e neppure se questi tribuni avessero appartenuto, come si volle, ad un collegium o funeraticia schola nautarum. In simili associazioni sarebbe vano trovare la carica di tribuni: nessun segno né tradizione storica esistono a Venezia di simili collegi, come invece l’epigrafia ne comprova l’esistenza a Adria e nel vico Arilicensium (Peschiera).

Origine del pari istituzionale romana ebbe il dux nel 697, il penultimo dei ducati imperiali costituiti in Italia (l’ultimo pochi anni dopo fu quello di Roma), al fine supremo di una unificazione nella condotta politica e sovratutto militare contro i Langobardi. L’epistolario di Gregorio Magno getta luce sulla costituzione dei ducati romani in Italia finora trascurati dagli storici a tutto favore dei pseudo ducati langobardi. Ma è nelle costituzioni imperatorie del Teodosiano che vanno ricercate le fondamentali disposizioni con scrupolo adottate dai Marittimi, circa la nomina dei loro duces. L’assemblea di Eraclea fu un concilium provinciale delle rappresentanze politiche ed ecclesiastiche dei cinque municipii romani di Padova, Altino, Opitergio, Concordia e Aquileia infranti dai Langobardi e ridotti ai loro agri marittimi. Il travaglio politico-costituzionale, finora tanto misterioso, della seconda metà del sec. VIII, va riconosciuto sovratutto nella resistenza delle autorità locali di quei cinque autonomi agri marittimi a trasformare tutta la regione litoranea in una nuova provincia romana unitaria alla quale, la Pragmatica Sanzione di Giustiniano, aveva dato i judices o rectores. La carica del dux che doveva essere transitoria e doveva scomparire dopo l’annientamento dei Langobardi, rimase per contrastare le tendenze centrifughe dei municipalisti i quali, non senza ragione, miravano alla reintegrazione politico-territoriale-ecclesiastica, dei loro antichi municipi romani. E rimase a più forte ragione anche dopo il tradimento franco dell’810 e il crollo del municipalismo. Il dux veneziano sorse e si mantenne fino alla caduta di Bisanzio per mano dei Turchi, come duca imperiale romano costantemente riconosciuto dagli imperatori, pure essendo di elezione locale, e con tale autorità si impose anche tra i regnanti stranieri d’Italia. Perfino un imperatore di Costantinopoli, Costantino VI, nell’805 fu eletto dux dai Veneziani. Tendenze autoritarie e pericoli del predominio di famiglie ducali furono contenute e sventati dai tribuni judices (rectores) e dai concili provinciali del popolo, memori sempre che tirannia e poteri dittatoriali erano incompatibili col carattere tradizionale romano del dux, onde fu inconcepibile del pari ogni idea di ducale monarchismo. Il ducato veneziano si mantenne per secoli il più costituzionale dei reggimenti politici in forza della equilibrata partecipazione di tutti i poteri.

Diritto romano e diritto corporativo.

È consuetudine di dotti ritenere che l’eredità giuridica romana s debba ricercare nella tarda legislazione ducale e nelle istituzioni veneziane attraverso tracce, barlumi, quali miseri legati del pensiero di Roma. Ciò nel presupposto che i primitivi «poveri pescatori», pieni soltanto di castità, di altro non si fossero avvalsi che di una specie di diritto proprio naturale! Quando si consideri invece che i Marittimi furono il fiore della nobiltà veneta tra i quali si affermò necessariamente la integrale continuazione del diritto pubblico e privato romano Teodosiano, Giustinianeo e post-giustinianeo, da essi forse anche riassunto in un loro Liber o Codice, sarà meglio comprensibile la evoluzione loro in tutti i campi del diritto, la quale soltanto può svelare il segreto della straordinaria ascesa dei Veneziani, aristocratici anzitutto per l’aristocrazia di pensiero romano. Valga l’esempio corporativo.

Tra i Marittimi il corporativismo si trascinava nelle superstiti antiche Scholae, a Ravenna nel secolo ottavo militarizzate, onde anche il duca Marcello trasse da quelle veneziane il primo exercitus Venetiarum. Ma ecco che nel secolo tredicesimo appaiono belli e formati gli stupendi capitolari delle Arti o delle Scuole che fecero la gloria delle arti, delle industrie e del commercio di Venezia. Creazione o filiazione? Un complesso di influssi e di concordanze tra questi Capitolari e il Libro Eparchico o del Prefetto uscito dalla mente di Leone VI intorno all’anno 900, induce a ritenere che questo sia stato, come a Costantinopoli così a Venezia, il prototipo statuto, il più antico e organico codice del sistema corporativo romano di quel tempo in riforma di quello precedente antiquato e non più consono alle nuove esigenze e ai nuovi sviluppi della civiltà[3].

La vitalità possente della Repubblica di Venezia, continuatrice di una più nobile parte dell’impero Romano, non è concepibile che sul fondamento di quegli istituti civili, giuridici e politici che avevano costituito l’essenza dell’imperium, prima che esso divenisse attributo del principato dei Cesari.

Non dimenticarono mai i primi Veneti e i primi Veneziani o Venetici, che il Popolo Romano raggiunse la sua vera grandezza morale non ai tempi di Cesare, di Antonio e di Ottaviano Augusto, ma in quelli dei Fabi, dei Gracchi e degli Scipioni e che la Repubblica Romana alla quale i Paleoveneti indipendenti avevano fatta la loro spontanea dedizione, fu da essi amata per la sanità dei viver civile, honeste viverc, alterum non laedere, suum cuique tribuer, prima ancora di ogni codificazione. La fedeltà dei Veneti giurata alle forme genuine della costituzione repubblicana di Roma, l’ossequio al Senato romano, il terrore della imminente guerra civile, nel 710 di Roma, indussero i Patavini a gettarsi nel partito dei Bruti e ad assecondare Decimo nella fondazione del loro Porto rivoaltino, dal quale trasse origine Venezia.

L’originalità dell’arte veneziana.

Stranieri imposero l’assioma che Venezia in arte nacque bizantina. E si assunse il termine «bizantino» come antitetico di romano, venetico e veneziano.

L’errore ebbe fortuna, ma va corretto.

Poiché l’arte è una delle più significative espressioni della vita, è proprio nella vita civile dei Veneziani che si afferma l’antitesi con la cosiddetta civiltà bizantina. Se in questa va sceverato il suo proprio romanesimo politico giuridico e artistico, nelle evoluzioni e nelle involuzioni dello spirito romano- ellenico orientalizzatosi che si caratterizza il tipico bizantinismo. La poliglotta metropoli crogiuolo di razze e di popoli, negazione di spontaneità e di forza nazionale propulsatrice, cosmopoli soggetta a tutti gli influssi ma anche a tutte le disgregazioni spirituali nella sua organica deficienza di senso morale, fu la capitale politica ma non la capitale morale del piccolo tribunato e poi Ducato delle Lagune. I Venetici ripeterono da Costantinopoli la legislazione codificata, la libertà politica, la costante autonomia interna, resa ancor più completa dal fatto che essi erano un ducato senza territorio, immune da contribuzioni fiscali al governo centrale, privo perciò non soltanto da una burocrazia bizantina ma eziandio di una società bizantina. I Venetici, compatto nucleo di popolo latino -romano, moralmente sanissimo, non si lasciarono affatto travolgere e neppure influenzare dalla corruzione orientale né dal bizantinismo, incompatibile con il carattere della loro stirpe, con la forza delle loro tradizioni, con la nobiltà del loro sangue, con lo sviluppo indigeno della genuina propria civiltà romana dalla quale soltanto e non da Costantinopoli ripeterono la loro grandezza, onde lo splendore massimo di Venezia andò a coincidere con lo sfacelo della babelica Bisanzio.

Per la comprensione artistica di Venezia bisogna richiamare sempre le sue origini romane e non bizantine, e la sua fedeltà ad un tradizionalismo indigeno aperto a tutte le bellezze, ma non a tutte le novità d’oltremare e d’oltre monte. Suffraga questo tradizionalismo, specie nelle arti costruttive, la mai interrotta e signorile edilizia dei luoghi lagunari dall’età repubblicana di Roma e per quanto riguarda Rivolto - Venezia, la coesistenza per oltre un millennio della splendida città di Matamauco, nella quale, come a Ravenna, dal primo al nono secolo si erano accampati per genitura spontanea come testimoniò lo storico del Mille: « in tutte le piazze bellissime chiese e bellissimi palazzi perfetti in ogni loro ornamentazione ». Matamauco fu la madre di Venezia e ne fu pure, e non Altino, la miniera di prezioso materiale edilizio e di opere d’arte, di una, fino ad oggi, presunta provenienza ravennate od orientale.

La originalità artistica romana e post-romana in Italia durante il cosidetto periodo bizantino, è stata di recente rivendicata da altri. Anche nelle arti edificative e figurative dal S. Teodoro rivoaltino dai duomi di Murano e di Torcello a quelli di Grado e di Parenzo tale originalità può ricevere luminose conferme. Romano il tipo basilicale e romano il tipo a pianta centrale di chiese e di battisteri e furono modelli anche per l’Oriente. Per quanto riflette il cosiddetto bizantinismo «le influenze e le reazioni orientali furono molto minori di quanto si volle far apparire da alcuni moderni studiosi ». L’influenza ravennate, prima ancora che bizantina, si diffuse tra i Marittimi e i Veneti istriani, mentre le influenze transmarine «si appalesano indiscutibilmente nelle decorazioni proprie del nuovo fasto orientale, nell’intaglio minuzioso a superfici piatte, nei trafori in luogo di rilievi sporgenti, nonché nei mosaici in un senso esagerato del decoro e del sovrumano» scrivono il Paribeni, Mariani e Serra. Tutta la multiforme e innumerevole produzione artistica nota e meno nota tra i Veneti marittimi fino al VIIº secolo denuncia l’esistenza anche di non interrotte maestranze locali, venete, che nel centro di Ravenna, dagli artisti costantinopolitani apprendevano le eleganze decorative orientali e le riproducevano in collaborazioni non sempre oggi distinguibili. ‘Sulla base di questo indirizzo, non potrà apparire inverosimile che le Vergini mosaicate nelle absidi di Murano e di Torcello e gli angeli di altro mosaico torcellano, coevi degli splendori del S. Teodoro narsetiano e di :Parenzo, ci guardino dal secolo VI e che il S. Giacomo di Rialto a tipo di pianta centrale, dove nulla di bizantino è superstite, sia uscito dalla sesta di artisti rivoaltini all’alba del secolo VII.

Dopo la pausa secolare imposta ai Venetici dalle lotte per la loro libertà romana, nel secolo IX iniziarono il loro risorgimento artistico in coincidenza, con quello di nuovi splendori costantinopolitani Un abisso tra l’uno e l’altro. Ma se i Venetici avevano fatta nell’uso dello scalpello la «man tremante », possedevano sempre il genio della stirpe, il tesoro delle loro tradizioni, i modelli delle loro arti costruttive e ,decorative da Matamauco a Grado, né erano rimasti del tutto inattivi durante il periodo di ferro nella splendida loro città eracleana. Le maestranze orientali dei mosaicisti a Venezia, trovarono intelletti pronti e non disposti ad abdicazioni spirituali.

Il motivo dell’arco detto arabo e motivi «romanici» furono da loro appresi in funzione decorativa o integratrice, non a sistema costruttivo. Le linee architettoniche della casa in rio :Foscari detta bizantina, possono offrire il modello superstite, tipico, di un diffuso sistema costruttivo indigeno, da riguardarsi quale anello di congiunzione tra lo stile diremo così romano -ravennate e quello venetico che trova ancora nell’edilizia veneziana numerosi esempi di successivi sviluppi.

Le costellazioni di caratteristiche patere marmoree infisse fino dal secolo IX e ricollocate in tanti edilizi veneziani ripetono in parte la loro origine figurativa non da Bisanzio ma dall’Armenia e spetta al genio dei Venetici il merito di aver fatto assurgere il significato simbolico di alcune di esse a motivi moralizzanti, di averle valorizzate bensì in un sistema originale decorativo, ma di averle anche accoppiate ad altre piccole sculture, croci e formelle, di significato indubbiamente mistico -cristiano[4] . L’anima religiosa veneziana non fu di importazione bizantina, rimase sempre antiiconoclasta e nel 610 in occasione della consacrazione di S. Giacomo di Rialto. abiurò uno scisma e si fece romana-cattolica.

Non a Venezia prevalsero le tenebre, i mostri e i contorcimenti romanici, ma sempre chiarità, eleganze e grazie nei simboli e negli ornati.

Tutti gli inconfondibili stili veneziani parlano di una assoluta originalità. La continuata creazione di cose belle dal tempio all’edificio pubblico, dal pa lazzo alla casa plebea, dal mosaico al monile di vetro, dalla scultura all’utensile domestico, scaturì dalla spontaneità del popolo che andava obbedendo soltanto all’imperativo di un sempre più raffinato buon gusto e che si rinnovellava nella sensibilità del colore e nell’armonia dell’insieme.

Fu l’originalità dei singoli artefici che creò la città più originale del mondo.

Fedeltà romana.

Quattordici secoli di storia di un popolo piccolo di numero e grande di virtù, unico al mondo, conservatosi in liberi reggimenti per lo spazio di millenni innestati nella sua preistoria; che patì le più tremende sventure e conseguì le più durature vittorie; che provò a lungo povertà nelle rinunce per godere per nove secoli delle più favolose ricchezze; che seppe sempre rendersi degno della sua interna autonomia, voluta anche negli altri soggetti rispettata; che si resse in fedele sudditanza alla centrale autorità con istituzioni politiche e sociali di durata plurisecolare, perché frutto di somma e maturata sapienza; che consentì tolleranza e rispetto alla libertà individuale, che non fosse l’azione proditoria contro la Patria, che prese l’aequitas a norma costante nella creazione del nuovo proprio diritto; che mantenne con fermezza la divisione dei poteri civili ed ecclesiastico; che adorò le Bellezza con le parole più originali che si creò una città soprannaturale e si eresse oltre cento palazzi più sontuosi e superbi di regge; offrono insegnamenti di grandezza imperitura. che fanno anche riguardare la fedeltà allo spirito del romanesimo, sotto nuove e splendenti luci[5]


 

[1] Le Abbazie veneziane dei S.S. Ilario e Benedetto e di S. Gregorio. - G. MARZEMIN. 17 tav. E. t. (Atti Archivio Ven. XXIII) 1912, Estratti presso Fantoni & C., Arti Grafiche Venezia.

 

[2] Memorie dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, V 1 (1845) p. 162 e Voi. VI (1856) p. 209.

 

[3] «Il libro del Prefetto ». Sistema corporativo romano di Costantinopoli e di Venezia. - G. MARZEMIN. (Atti R. Istituto Veneto di SS. LL. AA. t. XCIV) 1935-XIII, Estratti presso Fantoni & C., Arti Grafiche, Venezia.

[4] Le antiche patere civili di Venezia e i significa/i simbolici. - 3 tavole f. t. -G. MARZEMIN, - F. .Ongania edit., Venezia,  1937-XV.

 

[5] Le Origini romane di Venia  G. MARZEMIN. – 30 tav f. t. - Archeologia. Topografia, arte  e genealogie•Ed. Ar Grafiche Fantoni & C-. Venezia 1937-XV.

Sul metodo vedi Le Origini di Venezia e i metodi degli storici. G. MARZEMIN in Ateneo Veneto n1 1937-XV

La storia documentata dei Veneti Marittimi, con larga parte di quella d’Italia, dal V al IX secolo con la storiA degli istituti politici veneziani fino al XIII secolo. per la prima volta condotta indirizzo nazionale giuridico romanistico, dal 1934 trovasi inedita presso l’autore. Il capitolo sull’ordinamento corporativo, col titolo «Il libro del Prefetto», nel 1935 trova ospitalità negli Atti del R. Istituto Veneto