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ESTRATTO DA « ATENEO VENETO », ANNO CXXXIII, VOLUME 129

N. 4-5-6 - APRILE-MAGGIO 1942-XX

ORIGINI DELLA RAZZA ITALIANA

In questi giorni gli studi sulle razze umane si sono fatti di attualità e specialmente da quando l’arte politica ha cercato di tirare una docile scienza al suo servizio. Nella tormenta delle passioni che investono gli Stati e li sospinge a scagliarsi l’un contro l’altro sino, alla distruzione, al fattore razza viene attribuito un posto preminente nella nobiltà o nella ignominia, nell’esaltazione o nel dispregio.

Nessuna delle grandi nazioni europee può vantare di essere composta di un popolo che abbia serbato la purezza della sua razza da quando cominciò ad abitare nelle varie regioni serrate in confini politici raramente equivalenti a quelli etnografici. Viceversa ogni nazione che tende al suo progresso e al dominio perseguendo quelli che ritiene i suoi alti destini, si fa a rivendicare i caratteri fisici e spirituali della propria « razza », a invocare con orgoglio le tradizioni, a difenderne le virtù che ritiene originarie. Ed ecco sovvenire le indagini dirette a precisare le origini delle popolazioni, a fissare gli elementi caratteristici o differenziali delle varie, stirpi e razze e di qui affermarsi due indirizzi, diametralmente opposti l’uno che tende ad una specie di fratellanza o quanto meno ad uno spirito federativo, al principio di tollèranza e che nel complesso favorisce la fusione, entro certi limiti, più volontari che imposti, dei popoli e delle loro razze in una dinamica endogena creazione di una nuova razza plasmata dalla più alta civiltà; l’altro che tende alla difesa di una sola razza, alla tutela della sua « purezza » fisica e spirituale, che aborra da ogni contaminazione con altre razze, e pur aspirando al più vasto dominio su altri popoli, provoca d’improvviso acerbe ostilità contro altre razze da secoli conviventi, ma oggi ritenute nocive.

Con l’appartenenza a questo secondo indirizzo prende posizione nell’arduo cimento di sifatti studi, un valoroso cultore di scienze storiche, naturalistiche e letterarie, il prof. Vittorio Calestani col suo recente e nitido volumetto Origini della razza italiana « fondamenti della politica razzista » nella serie dei Manuali di politica internazionale, a cura dell’Istituto per gli studi stessi, stampato nelle Industrie Grafiche A. Nicola e C., Milano, 1941 XIX, (L. 23).

Le 300 paginette contengono 16 capitoletti, dai cui titoli si apprendono gli argomenti trattati, l’ordine tenuto e quindi anche i limiti entro i quali l’autore ha inteso svolgere il suo lavoro: I) Le razze; II) Vita e morte delle razze; III) Gli Indoeuropei o Ariani; IV) Razze antichissime in Italia; V) I Mediterranei; VI) Liguri e Siculi; VII) Gli Umbro-Sabelli; VIII) Gli Etruschi; IX) Altri popoli in Italia antica; X) L’Italia nell’epoca del ferro; XI) Aborigeni e Latini; XII) Le origini di Roma; XIII) Il dominio romano; XIV) Dall’Impero romano all’Impero dei Savoia; XV) Gli Ebrei; XVI) Italiani fuori di Italia; Conclusione: Politica razzista e nazionale.

Gli argomenti qui toccati sono invero tali da far tremare le vene e i polsi a scienziati di etnologia, di antropologia, di glottologia, di toponomastica e di storia, ma qui, passati sotto il vaglio del brillante eccletticismo dello scrittore, sono offerti in attraentissima lettura; l’economia del manualetto non comporta da parte del l’autore approfondimenti e discussioni sui problemi che affiorano ad ogni piè sospinto, essendo prevalente il carattere divulgativo. Allo studioso che volesse istituire controlli o che propendesse per l’opposta teoria viene offerta al seguito di ogni capitolo, una nutrita bibliografia, sebbene, non aggiornata, non vedendosi menzionati il Werner Sombart e l’Erwin Baur.

Lavori di questo genere sono veramente utili alla cultura, la quale è ben noto si giova anche degli stessi inevitabili dissensi teoretici, e delle debolezze di argomentazioni emergenti dalla stessa esposizione. Sono problemi ‘che toccano troppo l’intimo dell’umana’ personalità e non possono essere trascurati con una mortificante superficialità di giudizio da parte del critico.

La maschera di Pantalone, scrive l’Autore, rappresenta benissimo la razza illirica o dinarica, l’homo dinaricus: statura alta (con molta. differenza fra uomini e donne), corporatura magra, cranio brachicefalo, faccia allungata, naso molto pronunciato, aquilino (il naso più prominente che esista al mondo): pelle chiara, capelli bruni o castani. Questa razza che abita la Venezia Euganea e Giulia, che si estende nelle regioni montuose dal Danubio alla Grecia, senza distinzione fra parlanti italiano, tedesco, slavo o albanese insieme con la nordica, l’alpina, la mediterranea costituisce, egli assevera, la quadruplice distinzione delle razze che si manifestano nel nostro Paese e le stesse razze si trovano diffuse in quasi tutti gli altri Stati europei.

La divisione dell’umanità in un dato numero di razze, osserviamo, ha subito molte mutazioni, da chi ne ideò quattro o cinque a chi salì fino a 63 e si può dire all’infinito se si accetta il criterio delle « razze storiche » del Le Bon, cioè delle razze artificiali costituitesi nei tempi storici mercè le conquiste, immigrazioni od i cambiamenti politici. Ognuna di tali razze storiche si compone di un miscuglio di razze etniche. Così la popolazione tedesca si è formata dalla fusione di tipi primitivi, di razza alpina, Celti, Germani, Slavi, Romani, Prussi, Unni, Avari, Lituani, Vendi, Magiari, Ebrei i quali tutti, compresi quest’ultimi, erano già delle razze miste. Questo conglomerato è stato classificato dal Günther in base a determinati connotati in cinque razze: nordica, occidentale, orientale, dinarica e baltica, distribuite sul territorio tedesco. Alle commistioni etniche regionali vanno aggiunte le immigrazioni più o meno numerose di stranieri in Germania, negli ultimi secoli: ugonotti, francesi, polacchi, italiani, olandesi, inglesi, danesi, russi, svizzeri, ecc. Anche la Francia, secondo Ed. Martin Saint-Léon, è «un peuple des plus mêlés qu’ il y ait au monde » eppure « nationalemei un des plus unis ».

Il criterio dell’unità del sangue come naturale elemento. della razza, non regge alla analisi critica, esso è confutato dal fatto che non esiste più nessun popolo di sangue puro e che le razze originariamente pure sono sparse tra molti popoli diversi.

Dopo questi rilievi quale concetto ci possiamo formare per es. della razza dei Veneti? Tuttavia essendo innegabile l’esistenza di caratteri propri distintivi e comuni a tutto un popolo veneto d’Italia e che si manifestano nella lingua, nei costumi, nella religione, nei riti, nell’arte insomma e nella sua civiltà, il concetto di razza si presenta più perturbatore che chiarificatore in una classificazione e in una identificazione razziale che si presuma di impostare scientificamente.

La più competente autorità in questi studi, Erwin Baur, ha scritto: « Non si potrà inculcare mai abbastanza che il vincolo di unità di un popolo non è la razza, ma in prima linea la lingua e la cultura. Le differenze di razza, per esempio, tra i tedeschi, gli inglesi, i francesi sono sempre differenze relative, perché le proporzioni quantitative nella mescolanza di sangue nei vari popoli sono alquanto diverse; alcuni elementi razziali sono predominanti in uno di essi, altri elementi razziali predominano negli altri ». Volendo però salvare il criterio del sangue per la differenziazione dei popoli, si può convenire di accettare il criterio della «affinità » razziale, cioè della esclusione di incroci tra razze « troppo » diverse.

***

Il  « navigare necesse est » sta alla base si può dire del processo formativo del nostro popolo. Nell’epoca protostorica del ferro e micenea il periplo di Ulisse lungo le coste italiane, offre al Calestani dilettosa occasione alla sua arte costruttiva di procedere ad una impressionante identificazione di luoghi, di episodi e di fatti cantati da Omero in quelli della moderna geografia, onde la leggenda sembra assurgere a dignità di racconto storico. Come in certe nostre antiche cronache medioevali si trovano occultate non poche verità storiche di difficile ma non impossibile controllo, così il C. trasferendo arditamente lo stesso metodo a tremila anni addietro, riconosciuta la «natura composita » del poema omerico, vede in Homs della Tripolitania la costa dei Lotofagi, neI Capo Lilibeo o di Marsala il luogo dello sbarco di Ulisse, trova, poco distante di là, la grotta del Ciclope che identifica con l’attuale detta della Sibilla Cumana, vede i Ciclopi compagni di Polifemo abitare nelle grotte vicine, ravvisa Eolia nell’isola di Pantelleria, nello stretto di Bonifacio il paese dei Lestrigoni. L’isola di Circe è una penisoletta del Circello e la dea aveva la sua casa di pietre lucenti nella Selva Terracina, oggi parco nazionale. Nel lago di Fusaro riconosce l’Ade degli inferi e il mostro di Scila e Cariddi altro non è stato che un gigantesco polipo, catalogabile tra i calamari dell’Oceano, le sirene sono isole pericolose per i naviganti, l’isola di Thrinacia è la punta di Milazzo dov’erano i buoi sacri. Nell’isola di Galita della costa tunisina, vede l’isola di Ca lipso, e in Corfù quella dei Feaci; Thiaki è Itaca identificabile ancor oggi dalla grotta delle Ninfe, a due aperture, presso il porto, a venti passi dalla riva. Dalla leggenda di Fetonte il C. trae argomento per porre ad Abano il laghetto presso le foci dell’Eridano che ritiene sia l’Adige di Scillace, e di collocare le isole Elettridi in corrispondenza del nostro Lido.

La grande abbondanza di scogli naturali e metaforici consiglia l’A. a riservarsi in altro lavoro di completare la dimostrazione delle sue identificazioni, avvertendo che la sua ricostruzione del viaggio di Ulisse differisce da quella di Victor Bérard.

Se la potenza spirituale di una nazione scaturisce dalla razza, se le origini della razza italiana vanno ricercate nella fusione dei vari nuclei etnici che si stabilirono nella Penisola lasciandovi indelebili orme, se come disse il Carducci, la tradizione può chiamarsi l’anima della nazione, lusinga pensare che i più nobili e forti caratteri regionali del popolo italiano siano ad esso pervenuti in retaggio dalle sue antichissime genti. Dopo aver il nostro autore toccato alcune caratteristiche somatiche e glottologiche e delle civiltà proprie delle stirpi primitive stanziatesi in Italia, sarebbe da attendersi che il dinamismo ascensionale o potenza endogena di singoli gruppi etnici avesse contribuito a informare l’abito spirituale delle varie popolazioni di Latini, Liguri, Toscani, Veneti, Piemontesi, Lombardi etc., che si affermarono in età storica. Nell’originaria nostra grande varietà etnica potrebbe ravvisarsi un presupposto del grado di eccellenza raggiunto dalla razza italiana, come a contrariis, sarebbe dimostrato dall’egoismo razziale di Sparta e di Atene che rifuggenti da ogni mescolanza rinunciarono al loro più grande divenire di Stato. Opina invece il Calestani che « nella mescolanza ogni vigore di razza sparisce » onde « e dovere degli Italiani astenersi dai rapporti con altre razze » Eppure tra Latini - Romani e Etruschi, dei quali è molto dubbio l’arianesimo, avvenne una progressiva e poi completa fusione, in forza della quale le sorti della civiltà nel mondo di Roma e di Firenze di tanto andarono superando quelle delle due cittadine elleniche. « Che è rimasto oggi degli Etruschi? Non una stilla certamente nel sangue dei toscani attuali » egli afferma, escludendo sembra con ciò ogni forma di ereditarietà anche nei recessi dello spirito. A questa stregua i nostri Veneti non avrebbero ricevuto proprio nulla dagli antichi loro progenitori, i Paleo veneti, che l’A. accomuna agli Apuli nella medesima provenienza illirica e razziale dinarica?

Volendosi pure trascurare in questa sede la testimonianza di Omero, dal Calestani ritenuto così autorevole fonte in materia topografica, sulla origine asiatica dei Paleoveneti, il silenzio dello scrittore sulla loro civiltà atestina non appare giustificato. Non è forse meraviglioso che soltanto in Italia i Veneti si siano mantenuti fino dalla preistoria un gruppo etnico ben individuato con taluni caratteri fisici loro propri inscindibili da quelli spirituali ? Passione della terra feconda, indomabile amore della libertà, sanità fisica e morale, predominio del retto criterio sul genio, furono le loro doti e le spirituali tendenze che li spinsero all’affratellamento latino e alla comprensione della civiltà romana nella quale si plasmò e cementò in loro lo spirito della romanità, lo spirito marinaro, lo spirito imperiale. Venezia, non colonia di cittadini romani, come la vuole l’antropologo G. Marro, al pari di Aquileia, ma compatto popolo di millenaria civiltà che sarebbe ingiuria degradare al concetto di razza, comune a tutte le specie animali, per quale complesso di forze endogene divenne e si mantenne per tanti secoli la più gloriosa e la più potente Repubblica italiana?

Incroci di razze diverse non sono nocive dal punto di vista fisico e intellettuale dei discendenti: riconosce ad un certo punto il nostro scrittore, il quale tra sforma così il razzismo in un mito. Fenici (semitici), Greci, Arabi, Normanni al Sud, Galli, Latini - Romani, Longobardi, Franchi al Nord, come si potrà dimostrare se fu maggiore il nocumento o il vantaggio causato dalle mescolanze razziali alla costituzione della stirpe italiana? Quand’ anche possa essere affermato con positiva esperienza di fatto che le originarie razze e stirpi nostre hanno dato espressione e originalità alla civiltà italica, ben poco noi sappiamo quali siano i necessari rapporti tra la materialità fisica di un popolo e la sua mentalità spirituale e quanto influisca in essi l’ambiente naturale.

La scienza, osserva Werner Sombart, si trova una volta ancora di fronte ad un limite che essa non può varcare. L’accurata indagine dei valori specifici dei popoli individuali per l’intera umanità ci conduce in ultima analisi a riconoscere la verità che « umanità e nazionalità sono un tutto indivisibile: l’umanità senza la nazionalità sarebbe vuota, la nazionalità senza l’umanità sarebbe cieca ».

L’idea delle razze, nel secolo scorso, aveva trovato poco plauso in Germania. Lo Herder aveva risolutamente ripudiato « l’ignobile vocabolo » di « razza ». Da allora in poi, l’idea della razza ha avuto sempre i suoi difensori e i suoi avversari. Pur ammettendo l’utilità dell’astrazione razzista come « ipotesi di studio » il Sombart vorrebbe che si ricorresse a questa ipotesi soltanto quando tutte le altre possibili interpretazioni fossero fallite, poiché la spiegazione di un fatto in base al sangue deve sempre « rinunciare al ragionamento e ci pone di fronte ad un mistero ». È un errore, dice, personificare la razza, immaginandola come collettività cosciente e operante. L’idea della superiorità della razza nordica e del valore gerarchico delle altre razze derivate dalla loro aliquota di « razza bionda * non ha nessuna consistenza scientifica. La teoria dell’unità e purezza delle razze, aggiunge il Lenz, non ha fondamento nei fatti. « Anche le razze relativamente più omogenee sono formate da un numero rilevante di diversi complessi ereditari. Tutte le classificazioni delle razze sono in qualche modo arbitrarie ». Altrettanto vaga e imprecisabile, si aggiunge, è la maggiore o minore influenza o prevalenza dei molteplici gruppi etnici che hanno formato i conglomerati razziali delle odierne nazioni europee, E ugualmente arbitraria l’affermazione che non c’è progresso senza in croci razziali, e l’affermazione opposta del Gobineau, che ogni mescolanza di razze abbassi il livello della razza più nobile. Tutte queste teorie rettilinee e intransigenti sono aberrazioni della retta via dell’osservazione oggettiva scientifica dei fatti.

I dibattiti razziali una cosa certa hanno dimostrato: la povertà scientifica della dottrina razzista.

Questo però non esclude, se necessaria, una difesa sociale.

La Babele linguistica, il labirinto dei caratteri fisici, la introvabilità delle « leggi di natura», a lotta fra lo spirito e la natura, le gare tra l’individuo e la specie, tra l’ereditarietà e la missione, tra la schiavitù e la libertà, sono tutte cose insolubili e misteriose che consigliano a ricevere il sommo bene dell’uomo nell’armonico cristiano raggiungimento della sua meta.

L’Impero romano, ben ricorda il Nostro, fino ad epoca tardissima compì una immensa opera di elevazione dei popoli a una civiltà superiore, e di unificazione spirituale, ponendo Roma come centro motore e insieme come forma suprema di umana perfezione. Lo esprime bene Plinio dicendo: « L’Italia di tutte le terre è insieme figlia e madre, scelta per volontà degli Dei a fare più chiaro lo stesso cielo rendendo umani i riti e gli uomini, a riunire insieme gli sparsi imperi, a ridurre ad una sola tante lingue discordi e selvagge, a dare una sola patria ai popoli di tutto il mondo ».

Il segreto della fortuna di Roma va ricercato nello spirito federativo a cui stette subordinato quello razziale, perché « il fondamento della prosperità di Roma è da ricercarsi nell’equilibrio fra lo spirito cittadino e il principio di’ tolleranza ».

Roma di Cesare sorta non come la città di un popolo, toccò l’insuperato apogeo della sua civiltà nell’armonica convivenza dei più svariati popoli e delle più svariate razze.

Constata amaramente il C.: « L’ avarizia e la gelosia hanno generato 1’ odio; 1’ odio ha portato alla guerra; oggi tutto lo sforzo delle nazioni europee, il pro dotto di tanti secoli di civiltà, si dispiega per distruggere le opere civiltà, e ogni Stato è fabbro del proprio destino ».

La nuova ideologia sociale che sorgerà dalle ceneri del mondo che sta crollando, dirà a quale dei due indirizzi, che abbiamo enunciato in principio, spetterà 1’ affermazione più romanamente duratura.

In una scala gerarchica non salgono o scendono le razze, bensì le civiltà e si assidono sul vertice quelle che praticano tolleranza e umanità, quelle che si fanno universalmente amare e che posseggono la virtù di spontanei assorbimenti di ci viltà inferiori e di popoli diversi.

GIUSEPPE       MARZEMIN